IL PRETORE Sulla questione di legittimita' costituzionale del combinato disposto degli artt. 438, 439, 440 e 442 del c.p.p. e 560, 561 e 562 del c.p.p. in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione sollevata dalla difesa di Panariello Nunzio; Sentito il publico ministero che ha espresso parere favorevole all'accoglimento della questione; Esaminato il fascicolo del pubblico ministero ai soli fini della valutazione sulla definibilita' allo stato degli atti del procedimento; COSI' DECIDE La difesa ha sollevato la suindicata questione sotto il profilo di non possibilita' per il giudice del dibattimento di applicare la riduzione di pena di cui all'art. 442 del c.p.p. nell'ipotesi in cui il g.i.p. non ha ritenuto definibile il processo allo stato degli atti in una ipotesi in cui sia stato ritualmente richiesto il giudizio abbreviato e il pubblico ministero abbia prestato il consenso. Nella fattispecie in esame si era avuta infatti una richiesta da parte dell'imputato di giudizio abbreviato avanzata nei quindici giorni dalla notifica del decreto di citazione a giudizio; in seguito a tale richiesta si era svolto il giudizio abbreviato davanti al giudice delle indagini preliminari; alla udienza dell'8 maggio 1992 il g.i.p. della pretura di Genova disponeva la restituzione degli atti al p.m., dopo le conclusioni delle parti, non ritenendo di poter decidere allo stato degli atti; conseguentemente si procedeva alla trasformazione del rito ai senzi dell'art. 562, primo e secondo comma, del c.p.p. con citazione dell'imputato da parte del p.m. per l'odierno dibattimento. La questione e' rilevante e non manifestamente infondata. Infatti sotto il profilo della rilevanza ad avviso del giudicante il giudizio era definibile allo stato degli atti, posto che nel fascicolo del p.m., che questo pretore ha potuto esaminare e che era integralmente a disposizione del g.i.p., erano contenuti sia il verbale delle dichiarazioni spontaneamente rese dal Panariello il 5 ottobre 1989, sia la risposta della sezione di polizia giudiziaria del 30 ottobre 1989 alla richiesta di indagine fatta dal pretore, all'epoca ancora con poteri inquirenti, dalla quale si evince che non era stato possibile identificare la persona indicata dal Panariello come colui dal quale aveva ricevuto gli assegni. Risulta pertanto inesatto quanto affermato dal g.i.p. che non si era richiesta l'identificazione del Grasso; gli altri profili poi indicati dal g.i.p. nella sua ordinanza dell'8 maggio 1992 erano ad avviso del pretore risolvibili in quanto attinenti al problema della valutazione dell'elemento soggettivo del reato. Prova della definibilita' allo stato degli atti e' che l'istruttoria dibattimentale, ormai di fatto conclusa, non ha aggiunto sostanzialmente nulla alle risultanze esistenti al momento del giudizio abbreviato e che lo stesso p.m. ha anticipato di poter rinnovare le stesse conclusioni gia' assunte davanti al g.i.p. La questione sollevata dalla difesa e' pertanto rilevante in quanto viene ad incidere sulla determinazione della pena eventuale, non potendo allo stato della normativa il pretore effettuare un controllo sul provvedimento negativo del g.i.p. e applicare la riduzione della pena in caso di eventuale condanna. Ma la questione, oltre ad essere rilevante, secondo il pretore non e' manifestamente infondata. E infatti gia' la Corte costituzionale piu' volte e' intervenuta sulla disciplina del giudizio abbreviato e sui rapporti tra le varie figure soggettive che allo stesso giudizio abbreviato partecipano. E cosi' gia' nella sentenza n. 181/1991 ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale del disposto degli artt. 438, 439, 440 e 442 del c.p.p. nella parte in cui non era previsto che il giudice del dibattimento, in caso di dissenso del p.m. al rito abbreviato, qualora ritenga ingiustificato il dissenso del p.m., possa applicare all'imputato la riduzione di un terzo della pena; cio' principalmente sulla considerazione che l'organo deputato ad un controllo sulla sussistenza del presupposto della riduzione della pena dovesse essere il giudice del dibattimento e non il g.i.p. in sede di udienza preliminare o di udienza per un procedimento speciale. La stessa considerazione puo' valere secondo il giudicante per il caso in cui con il concorso del pubblico ministero sia stato invece il g.i.p. a dare un provvedimento negativo sull'ammissibilita' del rito. Anche sulla scorta di questa argomentazione la Corte costituzionale con la sentenza n. 23/1992 ha appunto stabilito che non puo' spettare al g.i.p., che dia valutazione negativa in presenza del consenso del p.m., l'ultima parola in modo preclusivo sulla decidibilita' allo stato degli atti con una pronuncia che incide sulla misura della pena. E questo controllo deve essere affidato al giudice del dibattimento, senza che cio' nulla tolga al ruolo del g.i.p. posto che la riduzione dovrebbe essere applicata all'esito del dibattimento, cosi' valutando la consistenza degli elementi probatori raccolti e la possibilita' di ulteriori acquisizioni. Conformemente a quanto statuito dalla sentenza della suprema Corte del 22 aprile 1991, sezione prima, non potendo questo giudice dibattimentale ne' applicare la riduzione di un terzo non essendovi allo stato la norma che prevede questo potere, ne' annullare il provvedimento che dispone il giudizio (cioe' il decreto di citazione ex art. 562 del c.p.p.), non ha altra strada che quella di sollevare la questione di legittimita' costituzionale delle norme in questione. E infatti la norma in questione comprime il diritto di difesa dell'imputato che non puo' difendersi in alcun modo contro un provvedimento, allo stato insindacabile, che disconosce un suo diritto e incide in maniera sostanziale sulla determinazione della pena. Le norme suindicate, poi, contrastano con l'art. 3 della Costituzione sia perche' creano sicuramente una disparita' di trattamento tra l'imputato che, pur avendo ottenuto il consenso del p.m., si vede negare - e allo stato irrevocabilmente - il giudizio abbreviato e quindi l'eventuale riduzione della pena, e l'imputato che invece nonostante il dissenso espresso del p.m. tale beneficio puo' ancora ottenere in sede dibattimentale; sia inoltre perche' le previsioni suindicate, non consentendo nella fattispecie la riduzione della pena in caso di condanna, determinano uno strappo nei principi di coerenza e ragionevolezza che dovrebbero esistere nelle norme soprattutto quando disciplinano, seppur in maniera articolata, uno stesso istituto. Non sposta i termini del problema, poi, ad avviso del giudicante, la circostanza che il p.m. sia stato piu' o meno inerte o piu' o meno solerte nell'espletamento delle indagini (fermo restando che nella fattispecie comunque erano stati disposti accertamenti per l'identificazione del Grasso); e infatti l'inerzia del p.m. sicuramente puo' rendere ancora piu' grave la mancata previsione della possibilita' di riduzione della pena, laddove - mancando il controllo sul provvedimento del giudice della fase precedente - si precluderebbe in maniera piu' drastica il diritto dell'imputato alla riduzione della pena (salvo sempre che il giudice del dibattimento non eserciti i poteri istruttori di cui all'art. 507 del c.p.p. cosi' colmando eventuali lacune di indagini). Cio' tanto piu' attualmente in un momento in cui la giurisprudenza della suprema Corte si avvia a riconoscere sempre piu' la sussistenza, al di la' delle carte, di una maggiore difficolta' della difesa nella ricerca delle prove rispetto al p.m. tanto da sollecitare lo stesso p.m. alla raccolta gia' nella fase delle indagini preliminari anche delle eventuali prove a discarico (vedi in tal senso da ultimo sent. Cass. pen. 3066/92). Ma il problema dei profili di incostituzionalita' sopraesposti resta identico anche nell'ipotesi di un p.m. efficientissimo e solerte che ricerchi tutte le prove e compia tutti gli eventuali accertamenti ulteriori, perche' comunque il giudice, all'esito del dibattimento, in caso di condanna, se il g.i.p. ha dichiarato non definibile il giudizio allo stato degli atti, non puo' ridurre la pena di un terzo con grave disparita' di trattamento rispetto a situazioni sostanzialmente identiche. Devono essere rimessi quindi gli atti alla Corte costituzionale per la valutazione della suindicata questione. Non e' infatti ad avviso del giudicante applicabile direttamente - come gia' rilevato dal p.m. - nel presente giudizio la sentenza della Corte costituzionale n. 23/1992, in quanto innanzitutto la stessa riguarda una ipotesi di giudizio davanti al tribunale senza alcun riferimento, neppure indiretto, al giudizio pretorile. Inoltre nel dispositivo della sentenza n. 23/1992 la norma dell'art. 562 del c.p.p. - principale "sospetta" - non e' indicata tra le norme cd. "conseguenti" a cui si estende la pronuncia di illegittimita' costituzionale. Nella specie non siamo poi nell'ambito di una questione meramente interpretativa di un inciso normativo non chiaro per cui potrebbe soccorrere il tradizionale canone ermeneutico di preferire l'interpretazionecompatibile con la Costituzione; si tratta invece di valutare la conformita' a Costituzione della mancanza di un potere del giudice che incide sui diritti processuali e sostanziali dell'imputato. Per la stessa forza poi delle sentenze della Corte costituzionale (che hanno l'effetto di cancellare dall'ordinamento le norme dichiarate incostituzionali e di integrare e interpretare con forza normativa le norme stesse nel caso di pronunce interpretative e additive) e' necessario che la Corte costituzionale si pronunci espressamente sul punto.